venerdì 27 febbraio 2015

Cronache familiari: capitolo I




Era mio padre...

Dalle confessioni di S. Braccino

È da molto tempo che voglio scrivere una cronaca sulla mia famiglia. Ma per farlo è bene partire delle origini.
Mio padre.
A lui devo molto di ciò che sono. Non solo i tratti somatici: lo sguardo austero, le linee marcate, il collo lungo e slanciato; ma pure i miei ideali etico-politici e, se quel piovoso pomeriggio dicembrino, mi sono tesserato alla FIOM e da allora ho sempre lottato per i diritti dei lavoratori e dei poco abbienti.
Primo di sette fratelli, egli nacque il 3 maggio 1888 a Rignano sull’Arno da una famiglia di mezzadri e, fin dalla più tenera età, seppe cosa volessero dire lo stento e la miseria. Rimasto precocemente orfano, mio padre dovette occuparsi del mantenimento dei fratelli. Durante quegli anni di dura esistenza, fiorì in lui il desiderio di dedicare la sua vita alla difesa dei più deboli.
Poiché all’epoca era assai difficile accedere a un’istruzione adeguata, si iscrisse in seminario e continuò gli studi sotto la guida del parroco locale. Lì imparò a leggere e a far di conto. Nonché il greco, il latino e alcuni rudimenti di sanscrito. Non prese tuttavia i voti, anzi in età avanzata si è spesso rincresciuto di quest’esperienza alla luce delle sue posizioni anticlericali.
Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, lavorava di giorno come garzone in una bottega e di sera aiutava un notaio nel suo studio: sei becchi da sfamare non sono uno scherzo! Riguardo al conflitto, le sue posizioni furono intransigentemente anti-interventiste in perfetta coerenza col suo socialismo utopico. Si dice che in quegli anni avesse avuto un alterco con Gabriele D’Annunzio, ma i motivi del contenzioso esulerebbero dalla politica: il poeta-vate, recatosi in bottega, aveva chiesto di pagare il restauro metà con fattura e metà al nero. La cosa non andò giù a mio padre!
Terminata la guerra, trovò un impiego come capostazione ad Arezzo. Durante l’ascesa di Mussolini, molti furono ammaliati dal bazzuto futuro dittatore. Ma mio padre non si fece ingannare neppure da certi propositi d’ispirazione socialista presenti nel suo programma. Forse per questo, un giorno, mentre era al lavoro, un gruppetto di squadristi si accanì contro di lui strappandogli le penne: partirono dalla coda per poi denudarlo completamente. Tale misfatto lo turbò profondamente: mio padre era sempre stato molto orgoglioso del suo piumaggio e ogni qualvolta si recava in balera, la lucentezza delle sue piume faceva strage di cuori. Era, come mio fratello, un incallito dongiovanni.
Ben presto la disperazione scemò e subentrò progressivamente un giusto senso di vendetta. Gli autocarri tedeschi che dovevano transitare per i passi dei Mandrioli, della Consuma, della Verna e della Calla erano obbligati a passare nei pressi di Bibbiena. Mio padre prese parte attivamente alla resistenza pur operando dietro le quinte: non potendo impugnare un mitra con le ali, si caricava sulle spalle armi, viveri e medicinali e faceva la spola dall’accampamento ai luoghi di battaglia. Spesso si occupava persino dei giri di ricognizione o si accollava i feriti benché a pieno carico. E fu grazie al suo intervento che le forze tedesche furono distolte dai fronti più rilevanti.
Mio padre ebbe insomma un ruolo-chiave nella Resistenza contro il nazifascismo. Sul ruolo, tuttavia, gli storici discordano: pur riconoscendone all’unanimità il valore, le scuole di pensiero si sono divise circa il modo in cui la sua azione va letta e contestualizzata (e ciò un po’ mi rammarica, dato che per fugare ogni dubbi basterebbe interpellarlo, visto che è vivo e vegeto).
Nel dopoguerra tornò a fare il capostazione. I suoi fratelli erano ormai grandi e vaccinati, così si comprò una casetta in via Cavour in prossimità del convitto, dove risiede tutt’oggi con mio fratello. Là visse serenamente da solo per alcuni anni. Poi in età avanzata, un bel dì, durante una manifestazione sessantottina trovò l’amore: Clementina Quattropenne, attivista politica e chitarrista classica. Alcuni anni dopo convolò a nozze – in comune, s’intende – e l’11 luglio nascemmo io e mio fratello Tranquillone.
Purtroppo, in seguito a complicazioni dovute al parto, nostra madre morì. Mio padre, malgrado l'avesse amata moltissimo, non parla volentieri di lei: penso che ricordare i bei momenti passati assieme è per lui fonte di un’indicibile malinconia. La ferita non si è mai emarginata.
Probabilmente è proprio a causa dell'inaspettata scomparsa di mia madre che mio padre è tanto protettivo nei nostri confronti.



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